Creato da saulferrara il 08/04/2012

Saul Ferrara

Diario di uno scrittore

 

 

La porta del vento

Post n°8 pubblicato il 29 Giugno 2013 da saulferrara
Foto di saulferrara

La Porta del Vento

 

 

 

Barbara ed Ivan erano stremati per il troppo girovagare attraverso il dedalo di strette viuzze dell’isola. Si sentivano le gambe dure come fossero di legno, ma la stanchezza non aveva ridotto la gioia che  provavano per il fatto di poter essere, anche se per pochi giorni, dei turisti avidi di nuovi paesaggi. Le loro non floridissime finanze non gli consentivano di viaggiare spesso e così, quando avevano la possibilità di farlo, assaporavano ogni momento con la medesima, appagante soddisfazione che regala il sorseggiare una bevanda ghiacciata in piena estate. Quel piccolo fazzoletto di terra nel Tirreno, con le sue meraviglie naturali ed i caratteristici negozi e ristoranti, era del resto in grado di esaudire anche i desideri dei visitatori più esigenti. Barbara, completamente rapita dalla bellezza del posto, aveva ormai stabilito che l’isola sarebbe stata la loro meta “obbligatoria” negli anni a venire. Ivan, invece, era scuro in volto perché anche in quella occasione aveva sbagliato scarpe, preferendo ad un comodo paio da ginnastica dei mocassini scamosciati, e ormai non riusciva più a sopportare il bruciore delle vesciche.

<< Amore, ci fermiamo un po’? Ho i piedi gonfi, sembrano due cornamuse…>>, fece, esibendosi in una smorfia supplichevole.

<<  E va bene...>> accondiscese la giovane donna, assumendo un’espressione di finto rimprovero, come si fa con i bambini che fanno troppi capricci.

<< Non sono stanco, è solo che mi fanno male i piedi. La prossima volta scelgo anch’ io un paio di scarpe comode.>>, precisò Ivan, che ci teneva a non  perdere  la sua immagine di uomo forte.

<< Visto che dobbiamo fermarci, tanto vale mettere qualcosa sotto i denti . Che ne dici di quella trattoria? È così romantica…>>, suggerì Barbara, indicando un piccolissimo locale con quattro tavolini soltanto.

<< Volentieri, avevo giusto un languorino.>>, approvò Ivan, gonfiando le guance come se avesse la bocca piena di cibo per poi iniziare a  mimare l’atto di masticare

<< Tu, un languorino? La verità è che, quando si tratta di mangiare, sei sempre pronto>>, rimarcò Barbara, colpendo il suo ragazzo per scherzo con una serie di rapidi pugni all’addome.

Il ristorante si chiamava “La Locanda Del Corsaro” e l’arredamento era davvero in tema con il nome: vecchi timoni di legno e sciabole arrugginite coprivano le pareti, mentre due enormi forzieri, allineati e poggiati su dei ciocchi, venivano utilizzati, in modo davvero originale, come  bancone. Ivan e Barbara erano gli unici avventori e scelsero il tavolo più vicino all’ingresso per non smettere neanche per un istante di guardare l’incantevole panorama. Appena si accomodarono, un giovane, che dava la netta impressione di essere più avvezzo a maneggiare reti ed arpioni che stoviglie, con modi bruschi e spicci apparecchiò il loro tavolo in un batter d’occhio. I due fidanzati si scambiarono un sorriso d’intesa e chiesero all’improvvisato cameriere il menù, curiosi di vedere quali fossero le specialità di quel locale così caratteristico.

<< Mi dispiace, ma non ho un menù da mostrarvi. Noi serviamo solo insalate isolane. Sono qua apposta per elencarvi tutte le possibili varianti. >>, chiarì, con marcato accento, il ragazzo, che di seguito cominciò a passare in rassegna  un discreto numero di piatti, senza tralasciare di illustrare nel dettaglio tutti gli ingredienti di ciascuno, compresi quelli che di norma sono obbligatori come olio e sale, e che pertanto poteva benissimo evitare di ripetere ogni volta. Sia Barbara che Ivan ordinarono una “Circe”, scegliendola convinti più dal nome che dal contenuto, anche perchè non ricordavano neppure un decimo di quanto gli aveva appena snocciolato il cameriere. Il ragazzo non solo aveva parlato con la stessa ruvidezza che ogni suo gesto esprimeva, ma era anche ricorso spesso a termini strettamente  dialettali.

<< Speriamo che questa “Circe” sia  abbondante, il mio languorino si è trasformato in fame da lupi.>> disse Ivan mentre allungava una mano sul cestino del pane.

<< Amore, se l’insalata non ti sazia, prima di rientrare in albergo ci fermiamo in quella rosticceria che hai razziato ieri e ti prenderai qualcosa. Non voglio certo che il mio piccolo cucciolo muoia di fame!>>,  fece Barbara, accarezzandogli con tenerezza la testa rasata .

<< Non trattarmi come se fossi un gattino abbandonato! Lo sai che mi dà fastidio, soprattutto in pubblico. Io sono un lupo cattivo, non te lo scordare...>>, brontolò senza troppa convinzione Ivan.

<< Tu del lupo hai solo l’appetito!>>.

Proprio in quel momento il cameriere apparve da dietro il bancone con due piatti di coccio.

<< Ecco a voi, e buon appetito! Vi porto subito il vino. Scusatemi me ne ero dimenticato...>>, disse, appoggiando rumorosamente i piatti. Ma mentre  stava per voltarsi e tornare in cucina, una debole voce femminile, con una forte inflessione francese, lo bloccò.

<< Salve, Pino, io mi accomodo al solito posto.>>, disse una signora sulla sessantina, sedendosi al tavolo accanto a quello di Barbara e Ivan.

I due fidanzati si girarono per guardare la nuova arrivata e rimasero sorpresi nel notare quanto fosse affascinante. Quella persona, a dispetto dell’età, sprigionava una bellezza eterea ed irreale: sembrava una di quelle austere dame che si possono vedere ormai solo ritratte nei quadri d’epoca.  Indossava un semplice abito ècru ed un cappello di paglia a falde larghe. Non appena la donna se lo tolse per poggiarlo sulla sedia, si liberò una cascata di capelli bianchi, tra i quali rilucevano, come pepite d’oro sulla neve candida, alcune ciocche bionde. Il giovane tuttofare, invece di andare al tavolo per apparecchiarlo e prendere l’ordinazione, senza neanche rispondere all’avvenente cliente si avvicinò ad una minuscolo uscio di legno, che ad una rapida occhiata poteva apparire uno dei tanti accessori dell’arredamento, e lo colpì  energicamente con le nocche.

<< Zi’ Bartolo, c’è Madame.>>, disse con voce annoiata, come adempisse ad un ordine del quale però non riusciva a comprendere l’importanza. La porticina si apri quel tanto da consentire ad un bonario faccione barbuto di far capolino per un istante. L’uomo, evidentemente, voleva verificare di persona la presenza della donna attraverso quell’apertura, che sicuramente era stata recuperata dalla cambusa  di una piccola imbarcazione e sembrava esser messa lì proprio per quello scopo, visto che era posta esattamente davanti al tavolo occupato dall’affascinante dama. Dopo qualche minuto Zi’ Bartolo, zoppicando vistosamente, si diresse verso la bella signora, spingendo un carrello per le vivande. L’uomo doveva avere pressappoco la stessa età della donna che chiamavano Madame, ma era decisamente meno attraente: grassottello, basso di statura e  con un barbone incolto che gli arrivava fin quasi agli occhi, ricordava un vecchio orso ferito. Con insospettabile grazia apparecchiò per la nuova arrivata con una tovaglia di stoffa verde lago, la qual cosa sorprese non poco i due fidanzati, visto che la loro era di volgare carta, e con degli orribili quadretti rossi e bianchi. Poi, dal ripiano basso del carrello Zi’ Bartolo prese un piatto a forma di conchiglia, colmo di frutti di mare, e una flûte con dentro tre rose bianche.

<< Buon appetito!>>, augurò con un filo di voce alla signora; poi, con il suo passo claudicante, ritornò a testa bassa in cucina. La coppia, nel frattempo, aveva consumato l’insalata, ma non sembrava avere alcuna intenzione di andarsene: i due si scambiarono un rapido cenno d’intesa per aspettare che la donna uscisse dal locale e poter così chiedere al cameriere chi fosse e per quale motivo le venisse riservato un trattamento tanto speciale. Barbara, come giustificazione per potersi trattenere ancora a lungo, suggerì ad Ivan di ordinare un’altra insalata, e il ragazzo accolse con entusiasmo la proposta.

<< Amore, tu ne sai una più del diavolo.>> disse facendo l’occhiolino ed inclinando la testa in un modo così buffo da sembrare Popeye.

<< D’accordo, l’idea non sarà molto originale, ma almeno sapevo che avrei potuto contare sulla tua complicità. Mangiare è la cosa che ti riesce meglio in assoluto e quando capita che questa tua straordinaria dote può esserci utile tanto vale sfruttarla. Sei d’accordo con me?>> chiese la donna ricambiando l’occhiolino.

<< D’accordissimo, amore mio. Se è necessario mangio tutto quello che hanno in cambusa: lo sai che per me il dovere viene prima di tutto. Mangiare e obbedire sono il mio unico motto. Puoi stare tranquilla tesoro, le mie mandibole saranno sempre al servizio di una giusta causa. >>, concluse Ivan mentre, con la mano alzata, cercava di attirare l’attenzione del cameriere che stava comodamente seduto sopra il bancone senza far nulla. Il ragazzo notò subito il gesto di Ivan, ma solo dopo un po’, e senza muoversi di un millimetro, sbuffò un seccato <<Arrivo>>.

<< Pino, gentilmente puoi portarmi il conto?>>, chiese Madame: la sua voce sottile divenne un dardo acuminato diretto al fondoschiena del giovane, che balzò dal suo improvvisato trono per precipitarsi dalla signora. La donna si era soltanto limitata a sbocconcellare qualcosa e a sorseggiare un po’ di vino bianco, ma sembrava molto soddisfatta di quel pasto così frugale.

<< Ecco il suo conto, Madame.>>, le disse il cameriere, porgendole uno scontrino stropicciato che teneva nel taschino della camicia. Poi si voltò verso la cucina e si mise ad urlare, sguaiato come in venditore ai mercati generali:

<< Zì Bartolo! Zi’ Bartolo!  Madame sta andando via! >>.

L’uomo barbuto comparve immediatamente; camminava spedito e, per consentire alla gamba malandata di stare allo stesso passo dell’altra, era costretto a trascinarla aiutandosi con entrambe le mani. Ansimante raggiunse la signora quando questa, pagato il conto al cameriere, era ormai in piedi e pronta ad andarsene.

<< Madame, ha gradito?>>, chiese Zi’ Bartolo con una intonazione che voleva essere raffinata, ma risultò invece ridicola per quanto uscì innaturale e distante dal suo aspetto di uomo primitivo.

<< Si, come sempre.>>, rispose l’affascinante cliente che, nonostante continuasse ad ostentare una certa distaccata superiorità, sembrava gradire le galanti attenzioni del buon cavernicolo.

<< Mi permette?>>, domandò timidamente Zì Bartolo, evitando lo sguardo della donna.

<< Si, certo.>> rispose Madame, lasciandosi sfuggire un mezzo sorriso compiaciuto.

Zi’ Bartolo, con le sue tozze mani tremanti, prese una rosa e ne spezzò il gambo; poi, con delicatezza, usando solo le punte delle dita, le sistemò una ciocca dei capelli dietro un orecchio e la fissò, usando la rosa a mò di fermaglio.

<< Signor Bartolomeo, lei è davvero un gentiluomo.>>, disse Madame, poggiando per un attimo la sua mano in quella dell’emozionatissimo Zi’ Bartolo.

<< Grazie, Madame.>>,  rispose l’uomo con una voce che vibrava di gioia. La donna si allontanò con lentezza, quasi stesse camminando su una passerella, lasciando Zì Bartolo a bocca aperta, immobile e attonito come una statua di sale, a guardarla sognante. Al giovane cameriere non era sfuggita la divertita partecipazione con cui i due fidanzati avevano osservato la scena, e con tono canzonatorio spiegò:

<< Sono ormai quarant’anni che mio zio ama quella francese.>>

<< Trentasei.>>, lo corresse Zi’ Bartolo con la sua vera voce, che suonò forte e robusta, da baritono.

<< Trentasei o quaranta fa poca differenza - aggiunse il ragazzo che, tutto ad un tratto, sembrava molto più  incline alla conversazione - Dovete sapere che Madame ogni estate viene sull’isola per una quindicina di giorni. E in tutto questo tempo mio zio non ha mai avuto il coraggio di dichiararsi.>>.

<< Quest’anno giuro che glielo dico! .>>, proclamò con tono austero Zi’ Bartolo, rivolgendosi al mare come se fosse quell’azzurra distesa d’acqua, e non il nipote, il suo interlocutore.

Lungo la stradina che portava all’albergo, Barbara non fece altro che parlare di Zi’ Bartolo e Madame.

<< Che storia bellissima, dovresti ricavarci un racconto.>>, suggerì al fidanzato.

<< No, il genere romantico non mi riesce bene, lo sai che la mia penna è abituata a soggetti di tutt’altra natura.>>, mentì Ivan,  che pur di farla contenta avrebbe scritto anche la sceneggiatura di una soap opera.

<< Ho un’idea!>> esclamò entusiasta la ragazza.

<< Sentiamo…>>

<< Il prossimo anno torniamo qui e vediamo se Zi’ Bartolo è riuscito finalmente a confessare a Madame che l’ama. Poi, tu dedicherai uno dei tuoi capolavori a questa vicenda. Che ne pensi?>>.

<< Okay, tra un anno esatto, stessa spiaggia e stesso ristorante.>>, acconsentì lui, prendendo la fidanzata tra le braccia .

 

 

 

Dodici mesi dopo Barbara e Ivan, fedeli alla loro promessa, sbarcarono sull’isola.

Non era ancora mezzogiorno quando entrarono nella “La Locanda Del Corsaro”.

Madame era seduta al suo solito tavolo, apparecchiato con la medesima cura della volta precedente.

<< Ci siamo persi il primo atto.>>, commentò Ivan guardando in direzione della signora francese.

<< Quello lo conosciamo già….È il finale che ci manca. Quando viene il cameriere, chiedigli se suo zio ha confessato a Madame di amarla.>>.

Il ragazzo non tardò ad arrivare e,  riconosciuti quasi subito i due commensali, li salutò con calore.

<< Siete rimasti stregati da questo posto, mi fa piacere!>>,

Ivan, incoraggiato dalla cordialità dell’inserviente, non perse tempo e fece un cenno con l’indice, invitandolo ad avvicinarsi ancora di più. Il giovane parve non stupirsi più di tanto per quell’ostentato atteggiamento da cospiratore e chinò la testa, avvicinandosi ad  Ivan.

<< Scusami, forse ti sembrerò un po’ invadente, ma siamo curiosi di sapere se alla fine tuo zio ha detto a Madame di amarla.>>, chiese Ivan a bassa voce, temendo che la signora, seduta poco distante, lo potesse sentire. Il cameriere si fece scuro in viso e, scuotendo tristemente il capo, rispose:

<< No, purtroppo non l’ha fatto l’anno scorso e non potrà più farlo. Mio zio è morto prima di Natale.>>.

Barbara e Ivan balbettarono imbarazzatissimi delle scuse e, ansiosi di cambiare immediatamente discorso, ordinarono due insalate “Circe”. Madame, nel frattempo, aveva messo i soldi del conto sotto il piatto e, presa una rosa dal bicchiere, stava per infilarne il gambo tra i capelli quando un forte fragore echeggiò nel piccolo ristorante: una violenta folata di vento aveva spalancato la porticina di legno dalla quale Zi’ Bartolo era solito ammirare la sua amata. In pochi secondi, l’irruente raffica, avvicinandosi al tavolo di Madame, si trasformò in un debole soffio che, prima di spegnersi del tutto,  come minuscole dita invisibili mosse delicatamente i capelli della donna.

<< Sei sempre così gentile…>> sussurrò lei. E, dopo essersi appuntata la rosa ad una ciocca  uscì.

Saul Ferrara

Racconto tratto dalla raccolta "I sogni dell'Ombra"

  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
 
 

L'ultima influenza e altri malanni

Post n°7 pubblicato il 22 Febbraio 2013 da saulferrara

Pappagalli

Clemente alla fine aveva preso la sua decisione: “un bel pappagallo è l’animale che fa per me” aveva pensato ad alta voce mentre leggeva per l’ennesima volta la rubrica del settimanale di annunci gratuiti dedicata agli animali domestici. Era andato in pensione da qualche mese e la solitudine iniziava a farsi sentire; avrebbe preferito un bel cane, di quelli enormi, che scoraggiano i malintenzionati dall’ introdursi di notte nelle case per derubare anziani indifesi come lui, ma lo aveva ritenuto un animale troppo impegnativo e solo l’idea di uscire ogni mattina all’alba, con qualsiasi situazione meteorologica, per fargli fare i suoi bisogni, lo aveva subito fatto desistere. Il gatto, invece, non lo aveva neanche preso in considerazione perchè il piccolo felino era, secondo l’opinione comune, l’animale simbolo dell’ egoismo e Clemente non avrebbe mai vissuto nella stessa abitazione con un altro essere col quale condividere il suo peggior difetto. La pagina accanto a quella della rubrica era occupata dalle pubblicità dei vari allevamenti e dei negozi specializzati in questo o quell’altro animale e Clemente vide subito quello che gli interessava : “ da L’Arca di Noè trovi il pappagallo come lo vuoi tè” era l’accattivante slogan del negozio che si presentava come il più fornito della regione, con oltre cento tipi diversi di pappagalli e tutti addestrati. La parola “addestrati” sorprese positivamente Clemente, “così non devo neanche perdere tempo ad insegnargli a parlare” pensò l’uomo passandosi una mano sul mento. Il titolare del negozio L’Arca di Noè sembrava anche lui uno strano volatile: alto, magrissimo e con le spalle curve ricordava l’avvoltoio dei cartoni animati.“Posso aiutarla?”, chiese educatamente a Clemente, fissandolo con i suoi occhi spaventosamente sporgenti. “Vorrei acquistare un pappagallo”, rispose l’anziano, un po’ intimorito da quei bulbi oculari fuori dalle orbite, puntati addosso come due minacciose bocche di fucile. “Siete venuto nel posto giusto!”, disse orgoglioso l’uomo-avvoltoio, mostrando con un ampio gesto del braccio scheletrico una lunga fila di pappagalli comodamente appollaiati sui loro alti trespoli. Clemente rimase subito colpito da un volatile con una vistosa cresta rossa. “Mi piace quello”, disse indicandolo. “Signore, posso sapere qual’ è il suo orientamento politico? Mi scusi se glielo chiedo ma deve sapere che ogni pappagallo è stato addestrato in modo diverso per essere il più vicino possibile alle idee dei nostri clienti”, spiegò con tono professionale e gesticolando teatralmente l’uomo, assomigliando sempre di più ad una grottesca caricatura. Clemente rimase stupito da quella domanda e dopo qualche incomprensibile balbettio rispose. “Io ho sempre votato per la Democrazia Cristiana finché c’è stata, ovviamente, ed ora sono costretto a votare per il Polo della Libertà, anche se devo ammettere che non mi piacciono troppo… quelli sono tutti divorziati, altro che Casa della Libertà, quella è la Casa dei Libertini!”, disse l’anziano, ripetendo senza una pausa il suo collaudatissimo sermone politico. “Se ho capito bene la sua posizione, lei deve essere cattolico. In questo caso, mi dispiace ma quel pappagallo non è adatto”, disse il titolare del negozio muovendo davanti al volto stupito di Clemente un lunghissimo indice ossuto, come se fosse la bacchetta di un direttore d’orchestra. “Certo, sono cattolico, e non come quelli lì che dicono di esserlo solo prima delle elezioni. Caro signore, io sono rimasto vedovo giovanissimo ma non mi sono mai risposato e le occasioni non mi sono certo mancate. Sono rimasto fedele alla mia povera Clotilde anche dopo che è andata in cielo. Quegli zozzoni dei politici tradiscono le mogli con i travestiti o le lasciano per sposarsi delle vallette che potrebbero essere le loro figlie!”, disse Clemente, con tutta l’indignazione di cui era capace. “Concordo con lei. Comunque, tornando a noi, quel pappagallo, come le ho detto, non è adatto e ora le do una piccola dimostrazione”. L’uomo poi rivolse il suo sguardo da extraterrestre verso il pennuto dalla cresta rossa e disse: “Carlo, Dio mio, oggi sei bellissimo!”“Dio non esiste e la religione è l’oppio dei popoli”, rispose gracchiando il pappagallo per poi subito mettersi a cantare il ritornello di Bandiera Rossa.“Per favore, lo faccia smettere!” urlò inorridito Clemente tappandosi le orecchie con le mani. “Carlo, basta così!” ordinò il negoziante e poi, posando una mano sulla spalla di Clemente lo rassicurò “Tranquillo, ho quello che fa per lei”. Poi si avvicinò ad un trespolo dove stava aggrappato un pappagallo dalle piume azzurre. “Faccia attenzione”, bisbigliò, invitando Clemente all’ascolto, per poi subito rivolgersi al piccolo pennuto con la stessa frase usata con il primo. “Pio, Dio mio, oggi sei bellissimo!”. “Non nominare il nome di Dio invano e chi ti loda è tuo nemico”, rispose prontamente l’uccello con una vocina da bambino rauco. “Lo prendo!” esclamò l’anziano pensionato entusiasta. Clemente, appena arrivato a casa, sistemò il trespolo con il suo nuovo amico volatile accanto alla sua poltrona preferita. “Ora mi preparo la cena e poi ci guardiamo un po’ di televisione. Va bene, Pio?” disse l’anziano, felice di non dover più parlare da solo come un povero pazzo. Si cucinò una razione di pasta alla carbonara così abbondante che sarebbe bastata a sfamare una squadra di operai dell’ANAS. Sistemò l’insalatiera stracolma di cibo sul tavolino, davanti alla sua poltrona preferita, e mentre con la mano sinistra stringeva il telecomando abbandonandosi ad un febbrile zapping, con la destra, armata di forchetta, iniziò ad avvolgere un grosso gomitolo di spaghetti. Ma proprio quando stava avvicinando quella fumante palla di pasta e pancetta alla bocca spalancata, il pappagallo lo fermò. “Gola, quinto vizio capitale, abbandono esagerato ai piaceri della tavola. Finirai all’inferno. Sì, sì, dritto dritto all’inferno”, disse severo il pennuto. A Clemente gli si strinse subito la gola, nessuno in tanti anni aveva mai messo in discussione il suo essere un buon cristiano, praticante ed attento osservatore di tutti i precetti. Tornò in cucina e, posata a malincuore la peccaminosa insalatiera sul tavolo, prese un pacchetto di crackers. L’anziano, poi, tornò ad accomodarsi sulla poltrona ed iniziò a consumare quel pasto frugale, entendosi sempre sotto il controllo vigile del volatile, il quale, quando fu chiaro che Clemente non avrebbe mangiato altro, iniziò a muovere il becco su e giù per dimostrare la sua approvazione. Dopo una ventina di minuti, con lo stomaco vuoto che brontolava, si addormentò davanti alla televisione accesa. Quando si svegliò erano le tre del mattino, l’ora in cui una piccola rete televisiva locale trasmetteva un programma hard. Clemente sintonizzò la televisione su quel canale e tolse il volume, poi, con la coda dell’occhio guardò il pappagallo appollaiato sul suo trespolo. “Quel maledetto uccellaccio sta dormendo”, pensò, pregustando le grazie di una spogliarellista bionda che ancheggiando lascivamente si stava sfilando il microscopico perizoma che rappresentava tutto il suo abbigliamento. “Lussuria, terzo vizio capitale, eccessiva dedizione al piacere delle carne. Finirai all’inferno. Sì, sì, dritto dritto all’inferno”, gracchiò Pio con la furente passione di un fanatico predicatore del medioevo. “Se non la finisci di parlare, stupido pennuto, ti mando io dritto dritto all’inferno!” urlò Clemente balzando in piedi e brandendo il telecomando come se fosse un coltello. Ma Pio, per niente spaventato dalla reazione dell’anziano, continuò con la sua predica. “Ira, sesto vizio capitale, il lasciarsi prendere facilmente dalla collera. Finirai all’inferno. Sì, sì, dritto dritto all’inferno”. Clemente aveva alzato la mano che stringeva il telecomando sopra la testa, pronto a colpire il pappagallo dall’alto con un micidiale fendente, ma alla fine riuscì a fermarsi. “Non ti tiro il collo perché mi sei costato trecento euro, ma domani mattina ti riporto dove ti ho preso”, disse tra i denti il pensionato schiumando per la rabbia. “Avarizia, secondo vizio capitale, l’eccessivo attaccamento al denaro. Finirai all’inferno. Sì, sì, dritto dritto all’inferno”, rispose il pappagallo con il suo solito tono di voce. “ Ma perché non ho comprato un cane!? Un bel  pechinese come quello che ha il mio vicino!” urlò a squarciagola Clemente, ormai vicinissimo all’infarto. “Invidia, quarto vizio capitale, il malsano desiderio delle cose degli altri. Finirai all’inferno. Sì, sì, dritto dritto all’inferno”, gracchiò nuovamente Pio come un disco che salta nello stesso punto, ripetendo continuamente le medesime parole della canzone. A quel punto il povero pensionato perse completamente il lume della ragione ed iniziò a rovesciare i mobili ed a lanciare qualunque cosa gli capitasse tra le mani. Clemente, dopo aver distrutto completamente il salotto, stremato dallo sforzo finì a terra privo di sensi. Alle prime luci del mattino, una voce lontana iniziò a cantilenare, finché, Clemente non aprì gli occhi. "Accidia, accidia”, ripeteva insistentemente la voce. Clemente si sentiva confuso e non riusciva a ricordarsi perché si trovasse sdraiato sul pavimento del suo salotto, o, per meglio dire, di quello che una volta era il suo salotto, visto le disastrose condizioni in cui versava. Sembrava che una tromba d’aria fosse passata da lì sparpagliando ogni cosa, dalla più piccola stoviglia al mobile più voluminoso. Ma la voce assunse l’inconfondibile tono da invasato predicatore e Clemente capì subito chi fosse a parlare, ricordandosi tutto quello che era accaduto qualche ora prima. La fine della sua noiosa ma tranquilla vita da pensionato era stata causata da quel fanatico pennuto e se non voleva impazzire doveva sbarazzarsene il prima possibile. “Accidia, settimo vizio capitale, l’ozio e la scarsa voglia di fare. Finirai all’inferno. Sì, sì, dritto dritto all’inferno”, disse con voce saccente il pennuto. “Senti, piccolo Torquemada col becco, ora ci facciamo una bella passeggiata”, rispose Clemente, con la voce impastata dal sonno. Quando il titolare de “L’Arca di Noè” vide entrare nel negozio Clemente con trespolo e pappagallo annessi, non sembrava credere ai propri dilatatissimi occhi. “Che cosa è successo?” domandò sorpreso “Niente, solo che vorrei cambiare questo pappagallo con quello comunista, mmm… cioè, volevo dire, con quello con la cresta rossa. Sa, il rosso è il mio colore preferito”, balbettò Clemente mentre, posato il trespolo con il Pio, prendeva quello occupato da Carlo. “Signore, ho il dovere di avvertirla, Carlo è addestrato anche a bestemmiare”, disse l’uomoavvoltoio. “Meglio così!”, rispose secco Clemente, suscitando un’ altra ondata di stupore nel titolare. “Come meglio così!? Ma lei non è cattolico!?” chiese sbarrando quei suoi stranissimi occhi che sembravano pronti a cadere da un momento all’altro, come quelli delle maschere di carnevale. “Sì, sono cattolico, ed è per questo che voglio l’altro pappagallo, è mio dovere portare verso la retta via quelli che l’hanno perduta”, rispose Clemente, dirigendosi velocemente verso l’uscita con il pappagallo comunista. Clemente e Carlo erano appena usciti dal negozio quando la voce di Pio li raggiunse, tuonando minacciosa. “Superbia, primo vizio capitale, quando un uomo ritiene di essere superiore rispetto ad un pappagallo.”

 
 
 

Guerre Fiorite

Post n°6 pubblicato il 09 Novembre 2012 da saulferrara

Guerre Fiorite e Poesie Scelte (1990 - 2008)

Edizioni Centro Studi Tindari Patti  

 

 

 

GUERRE FIORITE

 

 

1

 

La verde danza dei prati

accoglie il vento

dando forma al tacere.

Dal loro occulto colloquio

muove il verso,

debole insetto

che tra il morente fogliame

cerca spiraglio.

 

 

 

 

2

 

Sentinelle vocianti

incitano il mutismo del passo,

i timpani assorditi dalla fatica

odono soltanto la lotta

di nuovi Ulisse,

in viaggio verso Itaca.

 

 

3

 

Fiorisce

un sentimento

che non vuole

piegarsi al verso

in una guerra

senza ira

per sfuggire

alla morte

delle

comuni parole.

 

 

 

 

Poesie tratte da “D’Incompiute Emozioni”

 

 

 

 

Stanze Vuote

 

Nelle stanze vuote

le pareti sanguinano ricordi.

La polvere dei pochi oggetti rimasti

aleggia nell’aria, congiungendosi

con i rumori passati.

Le ore mi trasformano

nell’alta ombra del bambino

che qui, in anni passati,

per guardarsi intorno si alzava

sulle punte dei piedi.

 

 

E’tardi

 

Ridestarsi per

rivestirsi in fretta.

E’ tardi, si fa sempre tardi

e c’è sempre un indumento

che non vuole farsi trovare,

che si nasconde sotto le coperte.

 

Il nervoso gocciolio del rubinetto

ed il giubilo mattutino degli uccelli

ci ricordano gli impegni del giorno.

 

Chini rifacciamo il letto,

quello stesso letto dove

qualche attimo prima

ritenevamo tutto possibile

anche arrestare il tempo.

 

 

Randagismi

 

Vorrei come Fenrir mordere

la mano divina che mi porge il cibo

e nelle notti di luna piena

raggomitolare il tempo fuggito.

Sciolto dal destino dei miei simili

vorrei continuare ad essere

un randagio predatore di nuvole.

 

 

 

Poesie tratte da “Austere Nudità”

 

 

 

 

Suoni

 

Urlare

tanta è la voglia di urlare

e poi, magari,

ascoltare

la mia voce distorta,

salire in cielo

con l’umida leggerezza

di ciglia commosse.

Il vento

mi sarà amico

e come polvere

spargerà i suoni

della mia bocca,

come polvere

entreranno negli occhi

e nelle orecchie dei distratti.

Sospesi sui tetti

della città assonnata

si uniranno

alle nostalgie delle rondini.

 

 

 

Vita

 

Aspirando

alle tue fibrillanti

vette,

fieri

continuiamo

a generare

nuove luttuosità.

Dispettosa

ti mostri brevemente

nei minimi distacchi,

ordinari

come gesti

materni,

che frusciano

solamente

nel sonno del bambino.

 

 

 

 

Messaggi

 

Con cautela

le dita

si muovono

sulla tagliente

ragnatela

di uno specchio incrinato

come

per decifrare

un antico arcano.

Sulla superficie gelida

del verticale stagno

una lucida pupilla

si moltiplica

tra le confuse linee

che l’attraversano.

Un piccolo movimento del capo

ed ecco

apparire al suo posto

un naso

ed una bocca stretta,

visibilmente assetata

di felici precarietà.

 
 
 

La mia tesi

Post n°5 pubblicato il 27 Aprile 2012 da saulferrara
 

 

 

La terapia dell’ascolto

 

 

A Marilena che mi ha insegnato ad Ascoltare con il Cuore 

 

 

“Se si cura una patologia o si vince o si perde. Se si cura una persona vi garantisco che si vince, qualunque esito abbia la terapia”.

(Unter Patch Adams)

 

  Introduzione

 

L’introduzione di una tesi o di un saggio si scrive sempre alla fine, quando gli obiettivi delle ricerca sono stati raggiunti e la bibliografia ordinatamente riportata. Io, però,  ho deciso di non rispettare questa aurea regola perchè ritengo che spesso i motivi che ci spingono ad iniziare una ricerca  possiedono un valore maggiore dei risultati che si possono ottenere dalla ricerca stessa. A differenza della maggior parte dei miei colleghi ho iniziato il corso di laurea in Scienze Infermieristiche ad un’età piuttosto matura, per l’esattezza trentasette anni, e forse sarà stato per il mio bagaglio di esperienza  se ho vissuto questi tre anni di formazione teorica e pratica come una straordinaria scuola di umanità e di umiltà. L’idea di trattare per la tesi il tema della terapia dell’ascolto è nata durante i miei primi giorni di tirocinio, quando un po’ impacciato dentro la divisa candida e timoroso di compiere chissà quale danno irreparabile, cercavo di imparare il più possibile attraverso una attenta osservazione. Mi stavo accingendo a seguire il “giro visite” dei medici quando un infermiere trafelato mi chiese di rilevare la pressione arteriosa e la frequenza cardiaca del paziente “letto numero 11” . In seguito i miei docenti di “infermieristica clinica”, i caposala e gli infermieri dei numerosi reparti in cui ho fatto servizio mi hanno ripetuto centinaia di volte quanto sia importante assicurarsi dell’identità del paziente chiedendo sempre il suo nome e non fidandosi solo del numero del posto letto. Quell’infermiere, però, con quella perdonabile “imprecisione” aveva fatto vibrare una corda nascosta dentro di me. Appena entrai nella stanza, sebbene sbiadito, individuai subito il numero che cercavo sulla testiera di un letto.  L’uomo che occupava quel posto mi rivolse un sguardo timoroso e disse: “Non mi dica che deve farmi un altro prelievo?”. Lo rassicurai dicendogli che dovevo solo rilevare i parametri della pressione, il suo volto si distese immediatamente e dopo una piccola pausa d’imbarazzo mi confidò la sua paura, che  ammise un po’ troppo esagerata, per  gli aghi.  Io del signor “letto numero 11” non sapevo nulla,  non sapevo quali fossero le sue passioni, le sue idee, in cosa credesse; l’unica cosa che sapevo, a parte l’anamnesi, contenente dei termini per me allora incomprensibili, e che avevo letto nella sua cartella clinica, era la terapia a  base di cortisonici a cui era sottoposto, terapia che comportava una frequente rilevazione dei parametri pressori. Aveva quarantanove anni, quindi poteva essere benissimo un mio fratello maggiore, un giovane zio o immaginando un piccolo balzo temporale in avanti me stesso. Col passare dei giorni il signor “letto numero 11” diventò Emilio, e mentre gli somministravo la terapia ci scambiavamo brevi opinioni sulla letteratura, il cinema e la musica. Da questa amichevole confidenza si creò una sorta di reciproca fiducia che spinse Emilio a lasciarmi provare a “prendere una sua vena” . Io ed Emilio non eravamo più un allievo infermiere e un paziente ma due uomini che combattevano contro i peggiori nemici dell’umanità: la malattia e la solitudine. In conclusione di questa introduzione “sui generis” mi corre comunque l’obbligo di esporre in modo conciso la metodica di lavoro da me adottata nella stesura della tesi. La terapia dell’ascolto è una nuova frontiera etica che nasce per ridurre la ormai sempre più disumanizzata struttura burocratico-sanitaria portando così al centro del “sistema della cura” l’uomo e l’umanità. Non si può, ovviamente, trattare la terapia dell’ascolta senza prima chiarire dei concetti chiave come: identità, malattia, cultura e comunicazione. Ho ritenuto pertanto corretto dedicare i primi capitoli della tesi a questi concetti, concludendo con l’aspetto terapeutico che ha l’ascolto empatico per i pazienti oncologici. Negli ultimi decenni è cambiato nettamente il bisogno di salute: prima i pazienti, nella stragrande maggioranza dei casi, erano affetti da patologie acute d’organo, oggi, invece, sono affetti da patologie croniche sistemiche, e questa nuova tipologia di pazienti ha modificato le dinamiche assistenziali, dinamiche che richiedono maggiore competenza tecnica ma anche comunicativa,  e il sapersi porsi all’ascolto è essenziale per conoscere l’entità del bisogno del paziente  ed anche una forma di aiuto che attenua i disagi e la sofferenza della malattia.  

 

 

 

 

 
 
 

Sul Morbido Guanciale della Follia

Post n°4 pubblicato il 12 Aprile 2012 da saulferrara

 

Racconti tratti dalla raccolta “Sul Morbido Guanciale della Follia”

   Neve Appena Caduta

 

 

 

Racconterò per l’ennesima volta come si sono svolti realmente i fatti, anche se questi non sembrano avere nulla a che fare con la realtà. A memoria d’uomo era stato l’inverno più rigido che si fosse mai registrato nell’intera regione; per giorni aveva nevicato incessantemente, con una abbondanza tale da rendere impraticabili le vie principali ed interrompendo così ogni collegamento con i paesi vicini. In seguito ci fu riferito che dalla valle era addirittura impossibile distinguere il nostro paesello abbarbicato sulla cima dei monti dal resto del paesaggio, perché la neve aveva coperto tutto trasformando l’orizzonte in una vasta distesa bianca. La taverna del Cacciatore era l’unico posto dove non si pativa il freddo e fu lì che la vidi. In piedi, davanti al bancone, stringeva con entrambe le mani una tazza fumante e prima di avvicinarla alle labbra per sorseggiarne la bevanda contenuta, soffiava il fumo stringendo la bocca a forma di cuore. I suoi lineamenti erano chiari e delicati come neve appena caduta. Bella, distante e pericolosa come una rupe, sembrava volermi chiamare a sé. In un piccolo centro dove tutti gli abitanti si conoscono fin dalla nascita un forestiero non solo si nota subito ma desta una sorta  di diffidente curiosità, e quella donna, avvolta da un mantello di pelliccia bianca, emanava un così misterioso magnetismo che io me ne sentii subito attratto come una falena dalla luce. Messa da parte la mia inguaribile timidezza mi avvicinai e le dissi “E’un tempo da lupi!” pentendomi subito per la banalità della frase. Lei mi sorrise dolcemente e poi rivolgendo lo sguardo verso la finestra disse “Il laghetto sicuramente si sarà gelato, deve essere bellissimo. Vorrei vederlo“. La donna con una pausa studiata aspettò che le sue parole facessero presa su di me, lasciandole aleggiare come docili aquiloni spinti dal vento. Chiunque, anche uno un po’ imbranato come me avrebbe colto in quel discorso apparentemente casuale un invito e subito mi offrii di accompagnarla. Una volta rimasti da soli cercai di soddisfare la mia curiosità, domandandole come fosse riuscita a raggiungere il nostro paese in quei giorni di bufera. “Sono scesa dall’alto!” rispose con un tono tanto severo da ammutolirmi e così, in silenzio, ci incamminammo verso il laghetto. Durante il tragitto, senza farmi vedere, osservavo con rapidi movimenti degli occhi il profilo imbronciato della donna; sembrava preoccupata, come se dovesse affrontare un lungo viaggio e non una, se pur difficile, passeggiata nei boschi nelle prime ore di un pomeriggio di sole. Quando passava vicino ad un albero o a qualunque altra cosa che interrompesse con una variazione cromatica il candido paesaggio nevoso, sembrava che questi colori, come deformati da una lente, gli attraversassero le guance come se fossero trasparenti: il suo volto sembrava fatto di finissimo cristallo. Riprese a nevicare e la neve appena caduta era così soffice da rendere più faticosa la marcia, ma quella misteriosa donna continuava imperturbabile a camminare verso la meta, senza mostrare alcun segno di stanchezza. Qualche volta si allontanava di alcuni metri dal sentiero per fermarsi a gesticolare senza parlare in direzione degli alberi, e fu in occasione di una di queste brevi deviazioni che mi accorsi che i suoi piedi non affondavano nel delicato tappeto di neve. Mi voltai per osservare il tratto di bosco che fino ad allora avevamo percorso, notando subito che dal candore della neve spiccavano i segni scuri di una sola fila  di orme: le mie.  Prima non avevo dato troppo peso all’apparente trasparenza del suo volto, attribuendo quel curioso fenomeno ai bizzarri scherzi della rifrazione che si possono verificare in presenza di neve e ghiaccio, ma come potevo ignorare o spiegare l’assenza di impronte? Il mio primo impulso fu quello di scappare a gambe levate, allontanandomi il più presto possibile da quella creatura, ma la paura mi paralizzava. Poi, riflettendo, mi convinsi che se l’avessi accompagnata fino al laghetto, distante ormai poche centinaia di metri, mantenendo così il mio impegno, lei mi avrebbe lasciato andare via senza farmi del male. E così feci. Il lago ghiacciato sembrava un disco d’argento su cui i riflessi della luce del sole, verticalizzandosi, formavano una colonna di una luminosità accecante. Quel fascio di luce si alzava maestoso fino al cielo, fondendosi con le poche nuvole, che gonfie e dense, si stavano dilatando fino ad avvolgere in un ampio abbraccio la terra. “Va via non perdere tempo, i lupi hanno sentito la tua presenza!” mi disse, prima di immergersi in quella colonna di luce, scomparendo così alla mia vista. “Lupi?!  Non ci sono lupi in questa regione, l’ultimo è stato ucciso un secolo fa!” dissi ad alta voce, rivolto più a me stesso per incoraggiarmi che alla donna, ormai svanita come un fiocco di neve caduto su di una cima innevata. Non feci in tempo a concludere la frase che si alzarono inequivocabili degli ululati minacciosi. Stentavo a crederci, non c’erano lupi in questa regione, ed anche se ci fossero stati non avrebbero mai attaccato un uomo di  giorno, ma avevo assistito a troppe cose inspiegabili per fidarmi della ragione e così scappai. Corsi a rotta di collo lungo lo stretto sentiero, rischiando più volte di scivolare e finire rovinosamente contro i rami bassi degli alberi, e correndo ripetevo nella mia mente, come facevo da bambino prima di addormentarmi, una vecchia filastrocca che si recitava per tenere lontano l’uomo nero. I miei più terribili incubi infantili stavano prendendo forma nella realtà, ed io mi opponevo ad essi difendendomi con le stesse armi puerili che usavo da bambino. Durante la fuga, preso da una paura indicibile, misi un piede in fallo ed iniziai a rotolare sulla neve una, dieci, cento volte. Pensavo che non mi sarei mai più fermato ed avrei continuato a girare per sempre come una biglia impazzita, quando una staccionata di legno arrestò quel vorticoso moto. L’urto contro i paletti fu forte ma mai quanto la sorpresa di scoprire lì vicino l’esistenza di una piccola abitazione dal tetto spiovente. Conoscevo quei posti come le mie tasche ed ero pronto a giurare che in quel punto preciso non c’era mai stata una casa, grande o piccola che fosse. Per fortuna, tranne che per delle contusioni, non avevo niente di rotto e mi alzai dolorante ma tutto intero. Dalla casa uscì un uomo curvo, ingobbito, che per aiutarsi a camminare utilizzava una lunga scure come bastone. Si avvicinò e fissando i miei abiti con occhi che per via delle pesanti rughe erano ridotti a sottili fessure esclamò: “Tu devi venire dal dopo!Su entriamo”. La piccola abitazione era arredata solo da un lungo tavolo rettangolare, due sedie e un pagliericcio, e gli utensili, anche se sparsi sul pavimento, sembravano posti secondo un certo ordine. “Il mio compito è quello di dare ospitalità a chi si perde” disse il vecchio “Qui spesso capita gente del prima, sono molto rare le visite di quelli del dopo. Come si vive nel tuo tempo?” “Bene” balbettai, non comprendendo il senso delle sue parole. Il vecchio mi offrì del formaggio e un pezzo di pane su una ciotola di legno ma sentendomi troppo stanco e confuso per mangiare, rifiutai il cibo ed accettai il vino che sorseggiai direttamente da una piccola anfora di terracotta. “Ora va a dormire. Domani non nevicherà” disse, indicandomi il misero giaciglio. Mi addormentai subito, scivolando in un profondo sonno privo di sogni, in uno stato di quiete che ora rimpiango di aver irrimediabilmente perduto. Doveva essere qualcosa di molto simile al nirvana di cui parlano i buddisti, la pace infinita del nulla assoluto, e non perdonerò mai l’energumeno che mi risvegliò (lui sostiene di avermi salvato), per avermi sottratto a quel dolce vuoto. Con le sue mani callose prese a scuotermi finché non mi svegliai e, aperti gli occhi, notai subito che la casa e il vecchio erano scoparsi. Mi trovavo sdraiato sulla neve con quell’uomo sopra di me, che non faceva altro che chiedermi come stavo e cosa fosse successo, ed io iniziai a raccontare per filo e per segno tutto quello che era accaduto, ed oggi, a distanza di anni, non faccio che ripetere e ripetere lo stesso racconto. Adesso sono stanco e vorrei ritrovare la dimensione magica di quel sonno interrotto troppo tempo addietro, ma anche qui, in questa stanza dalle pareti bianche e morbide come neve appena caduta, non mi vogliono lasciare in pace: più volte al giorno entra un uomo in camice bianco che vuole che io ricominci daccapo a raccontare.

 

 

 

Numero 11

 

 

 

Allargare il passo… devo allargare il passo… senza perdere la frequenza… il respiro si rompe tra le tempie… li ho alle calcagna… sono vicini…sono maledettamente vicini.

 

Avevo appena due anni quando mia madre mi portò in collegio, affidandomi alle mani nodose di quattro suore ed alle loro storielle del cazzo fatte di angeli invisibili, tutti presi a spiare e a denunciare le mie cattive azioni, e naturalmente c’era anche il lupo malvagio, sporco e con gli occhi gialli, che veniva di notte a prendere i bambini disubbidienti per mangiarseli. Quando serravo forte la bocca, rifiutandomi di ingurgitare le porcherie che ci passavano, le suore si facevano più serie del solito e minacciavano “ Se non mangi tutto stanotte verrà il lupo a prenderti”. Poverine, erano convinte che mi cagassi addosso! Se solo avessero sospettato che la cosa che più desideravo allora era proprio quella di essere rapito dal lupo, per sparire con lui nel suo regno di zolfo! Nel collegio rimasi fino all’età di dodici anni e durante tutto questo periodo, di mia madre conobbi soltanto il suo profumo tenue, quasi privo di carattere, e quelle odiose caramelle che s’incollavano sempre al palato, dono immancabile delle sfuggenti e rare visite che mi faceva, durante le quali mi prometteva senza convinzione che sarei tornato a casa. Casa? Ma se non sapevo neanche cosa fosse una casa! Ero cresciuto in quel cazzo di collegio fatto di lunghi corridoi pregni dell’odore inconfondibile del disinfettante e da enormi camere bianche, bianche come il latte e senza un disegno, dove le suore con la loro tonaca nera spiccavano come ombre di avvoltoi. Poi, prima di andarsene, mi carezzava la testa rasata ed io speravo che non tornasse più.

 

Più veloce, sempre più veloce… non posso farmi raggiungere, non ora, non questa volta…Il sudore cola dalla fronte, la gola è arsa, e queste gambe dure come se fossero di legno… ma io ho imparato ad ignorare, so ignorare tutto.

 

Durante l’intera permanenza nel collegio mi fu assegnato un numero, l’undici. Lo trovavo ovunque, dominava, scritto con un pennarello rosso, sopra la testiera del letto su cui dormivo; era ricamato sulle mutande, sui calzini, in tutti i miei indumenti ed era perfino rozzamente inciso sulle mie posate, e col tempo questo numero diventò per me un secondo nome. Gli altri bambini erano tutti più grandi di me e questo mi creò molti problemi, non tanto durante le ore di lezione in aula quanto nelle ore ricreative: ero considerato il moccioso che puzzava ancora di latte e non mi lasciavano giocare con loro. Così, da solo, iniziai a correre intorno al collegio. Lo facevo senza fermarmi, finché non mi chiamavano per rientrare in classe. In poco tempo imparai tutto di quel piccolo percorso, il dislivello delle mattonelle, le pietre insidiose che affioravano dal terreno e le crepe delle aiuole. Correvo, correvo sempre di più ed intanto le mie gambe si irrobustivano.

 

Sto correndo come non ho mai fatto prima… Vincerò. L’ho capito quando alla partenza mi hanno dato il pettorale con il numero undici.

 

Uscito dal collegio le cose per me peggiorarono. Non potevo più correre. I parenti sostenevano che se lo avessi fatto la gente del paese avrebbe sicuramente pensato che ero un po’ svitato. In quel cesso di provincia il pensiero della gente era ovunque, come la merda di cane, e per non lordarti dovevi stare immobile. Lavoravo nell’officina di mio cognato, un uomo rozzo dai baffi setolosi che lo facevano rassomigliare ad un cinghiale. Ovviamente non ricevevo nessuna retribuzione, ma lui, in cambio mi avrebbe offerto la sua esperienza ed insegnato a vivere una vita normale, fatta di feste di piazza, partite al biliardo e tante, tante schedine. Mio cognato sapeva tutto del mondo; riusciva a posteggiare senza nessuna difficoltà nel piccolo spazio del garage e prima di chiunque altro ad individuare un fuorigioco.

 

Un giorno una giornalista mi domandò a che cosa penso durante una maratona. << A correre.>> risposi, ma in verità avrei dovuto risponderle che penso solo a scappare dal mio passato.

 

Poi vennero loro, gli aghi, le medicine, le mani forti per trattenermi. L’ignoranza e la cattiveria mi hanno rubato una parte della mia vita. Quei giorni, nei miei ricordi, sono come tanti fotogrammi di una pellicola non impressionata.

 

Mentre corro le persone mi incitano, urlano che sono il primo. Davanti a me è rimasto solo il tappeto blu che segna gli ultimi metri dall’arrivo. Gli spettatori si stanno preparando ad accogliermi con uno scroscio di applausi. Quando taglierò il traguardo aprirò le braccia, le alzerò al cielo affinché  tutti dicano che oggi ha vinto il numero undici.

 

 

 

Il Ponte

 

 

 

Luigi contava i giorni con le dita, ogni giorno un dito, ogni dito un giorno. Mancavano soltanto tre giorni ed egli fissava attonito quelle tre dita alzate per poi subito chiuderle, stringendo con forza il pugno fino a sentire le unghie premere contro il palmo, come se bastasse nascondere le dita per far scomparire il tempo, le mura e tutto quello che era accaduto. Durante quei lunghi mesi di internamento che con velata ipocrisia viene chiamata degenza, Luigi non aveva fatto altro che pensare a Clarissa ed al roseo ovale dei suoi capezzoli che risaltavano su quella pelle bianca e profumata come lenzuola lasciate ad asciugare al sole, eppure viziosa ed impura come lo sperma che Luigi, masturbandosi, spruzzava frettolosamente sulle mattonelle del cesso prima che un infermiere entrasse a controllare cosa stesse facendo. Clarissa non era mai andata a trovarlo, forse ancora scossa per quello che aveva visto. Quel giorno maledetto, purtroppo, c’era anche lei quando aveva cominciato a scalciare e sbavare come un cavallo imbizzarrito che lotta con il morso nel tentativo di liberarsi dalle briglie. A Luigi ogni giorno veniva comunque recapitata una sua lettera che egli senza aprire posava delicatamente sulle altre formando una piccola torre di carta. Clarissa certo non poteva sospettare che per colpa dei farmaci che gli somministravano Luigi riuscisse a malapena a trovare la concentrazione necessaria per leggere il nome del mittente, ma per lui il fatto di sapere che quella donna non lo aveva dimenticato come tutti gli altri era stato sufficiente a farlo sopravvivere in quel posto. Durante l’ora ricreativa che trascorreva nel piccolo parco adiacente alla casa di cura, Luigi aveva preso l’abitudine di osservare criticamente quello che facevano gli altri pazienti, come per studiarne il comportamento, e da questo concludere che lui non era e non sarebbe  stato mai come loro. Mario, ad esempio, tentava ogni giorno senza riuscirci di costruire un ponte con pietre, ramoscelli e tutte le cartacce che trovava sparse per terra. Secondo Luigi quel ponte in miniatura non era altro che l’estremo tentativo di ridurre il vuoto che esiste tra il malato e la normalità: pertanto il ponte serviva a Mario per attraversare l’abisso e, abbandonando la sponda del buio, raggiungere quella della luce. “Un pazzo osservando un altro pazzo può forse giungere a queste conclusioni? Certo che no!” diceva a se stesso Luigi. “Quindi io non sono pazzo, ma vittima di un errore!”. Quel giorno queste sue riflessioni furono interrotte bruscamente dal capoinfermiere, un omone che faceva pensare più a un macellaio che a un paramedico. Rino, questo era il suo nome, anche d’inverno usava tenere le maniche del camice arrotolate sopra i gomiti per mostrare i suoi avambracci forti e possenti, ed il messaggio che voleva inviare con quello sfoggio di muscoli era molto chiaro: “Con me non si scherza”. << Sei atteso nella sala visite.>> gli disse senza guardarlo. La sala visite era un’ampia stanza arredata soltanto da tre tavoli ovali di plastica, come quelli che si usano nei giardini, e da una ventina di sedie ognuna diversa dall’altra per forma e colore. Seduta ad aspettarlo dietro uno dei tavoli c’era Clarissa, ma l’entusiasmo di Luigi scomparve immediatamente quando lei, senza alzarsi, gli fece cenno di accomodarsi su una sedia posta davanti alla sua, lasciando così che il tavolo si interponesse tra loro. << Fra tre giorni ti dimetteranno.>> esordì Clarissa, con una voce tanto pacata da risultare estranea a Luigi, e dopo un piccolo sospiro riprese a parlare con quel suo nuovo tono monotono. Luigi ascoltava con attenzione il suono della voce lasciando che le parole inudite scivolassero lontano come foglie sospinte dal vento. Una pausa più lunga del solito gli fece capire che Clarissa aveva concluso il suo discorso, ed infatti la donna, alzandosi, gli passò velocemente una mano sul volto e fece per andarsene. In quella carezza non c’era più la passione di un’amante ma quel triste affetto che si può provare per un gattino cieco. Luigi prima di lasciarsi andare in un pianto liberatorio attese che il ticchettio dei tacchi a spillo di Clarissa fosse inghiottito dal ciabattare senza meta degli altri pazienti, che imperterriti vagavano lungo il corridoio. Senza asciugarsi le lacrime ritornò nel parco e raccolte due lattine ammaccate, le riempì di terra e poi rivolgendosi a Mario disse << Questi sono i pilastri. Vedrai che questa volta riusciremo a finirlo.>>

 

 

 

 

 
 
 
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