Creato da saulferrara il 08/04/2012

Saul Ferrara

Diario di uno scrittore

 

 

Il Mare

Post n°3 pubblicato il 09 Aprile 2012 da saulferrara
 
Tag: Il Mare

 

Il Mare

 

 

 

Fuori da ogni finestra era stesa una camicia ad asciugare. La debole brezza della sera  le gonfiava come tante bandiere obbedienti agli ordini del vento, e i loro colori sgargianti, anche se erano appena rischiarati dalla fioca luce del crepuscolo, risaltavano rispetto al misero grigiore delle mura delle abitazioni. Le piccole case erano attaccate una all’altra come arnie di un alveare. Costruite in economia, davano un senso di imminente precarietà. Nessuna era mai stata imbiancata e, con il passare del tempo, il loro colore era stato determinato dall’umidità, rappresentata da grosse chiazze che, ingrandendosi sempre più, lentamente ne coprivano la superficie quasi per intero. Quel paesello a poche decine di metri dal mare era l’unico posto che Rino, il vecchio pescatore, avesse mai visto in tutta la sua lunga vita; quello era il suo intero universo. Fin da bambino aveva trascorso la maggior parte del tempo ad osservare quella immensa superfice d’acqua, l’aveva vista adirata come un dio offeso e calmo come un bimbo addormentato.  Il mare aveva perfino unfluenzato il suo carattere, tanto che anche l’animo di Rino era instabile, ora irrequieto, subito dopo docile. Non sapeva ancora stare in piedi da solo quando, per la prima volta, aveva provato il sapore salato del mare. Suo padre, anche lui pescatore, durante le belle giornate domenicali lo lasciava gattonare nella battigia. E una volta, mentre Rino giocava con la sabbia, completamente assorto ad ammirare i disegni che tracciava con le manine, il padre, dopo essersi bagnato le dita in mare, gliele aveva passate rapidamente sulle labbra. Rino si era messo immediatamente a piangere e la madre lo aveva preso in braccio per calmarlo, ma lui aveva continuato a singhiozzare sempre più forte. Quel liquido, dal gusto così diverso da quelli cui era abituato, gli pizzicava la bocca in un modo insopportabile. La madre aveva iniziato ad inveire contro il marito, ma l’uomo, assolutamente indifferente al pianto del figlio ed alle rimostranze della moglie, aveva nuvamente immerso la mano in mare, come a voler catturare l’onda che si stava infrangendo sulla riva, e aveva ripetuto quel gesto, questa volta con una tale solennità da apparire come un druido nell’atto di compiere un’ancestrale rito battesimale. Tutto si era svolto in pochi concitati minuti, nonostante i furiosi tentavi della madre che cercava di tenere il marito lontano dal bambino tirandogli dei maldestri calci. Il padre, soddisfatto per esser riuscito a compiere la sua missione, aveva rivolto al piccolo una frase che Rino, nel corso degli anni, gli avrebbe sentito ripetere decine di volte: << Il mare è più salato di tutte le lacrime che verserai; ma se sai amarlo, con te sarà più dolce del miele. >>. Quelle parole, per Rino erano diventate il suo unico comandamento, e nei momenti di estremo dolore, quando non riusciva ad impedirsi di piangere, si spingeva oltre il faro e soltanto lì, da solo con il mare, riusciva a sfogarsi. Da ragazzino, quando aiutava il padre di ritorno dalla pesca a trascinare la barca a riva, trovava spesso delle alghe impigliate tra le maglie della rete; tutti le consideravano delle insignificanti erbacce marine, ma per lui erano i fiori degli abissi, le sentinelle che custodivano i segreti dell’oceano. Le metteva in un grande catino colmo d’acqua, nell’ingenuo intento di ingraziarsi la loro fiducia, per poi ottenerne in cambio chissà quale rivelazione. Col passare degli anni, ovviamente, aveva abbandonato quello sciocco convincimento, ma intimamente continuava a credere che, nelle profondità, si celasse qualcosa di straordinario, una sorta di divinità che si sarebbe rivelata soltanto a quei pochi eletti che fossero riusciti, con un totale amore nei suoi confronti, a rendersi meritevoli di quel dono soprannaturale. Rino, fedele a questa sua personalissima credenza, aveva sempre rispettato il mare e tutti gli animali che lo abitavano. A differenza degli altri pescatori gettava la rete, una sola volta e, se la pesca era abbondante, teneva solo un numero di pesci sufficienti a soddisfare il suo bisogno, restituendo la libertà agli altri. Tutte queste sue stranezze inizialmente lo avevano portato ad essere deriso dai suoi compaesani. In seguito, avendo  constatato la sua totale indifferenza ai loro commenti, costoro lo avevano emarginato, rivolgendogli la parola solo quando era indispensabile. Ma la divinità del mare, alla morte dei genitori di Rino, si era ricordata di lui, mostrandosi timidamente. Se n’era andata prima la madre, consumata in pochi mesi da quella che i gretti compaesani chiamavano una malia, ma che i medici avevano invece definito carcinoma ai polmoni. E  due mesi dopo il padre, distrutto dalla perdita della compagna di un’intera vita, si era spento spontaneamente, come una candela alla quale si fosse rapidamente bruciato lo stoppino. Dopo il funerale del padre, Rino era salito in barca ed aveva iniziato a remare con tutte le sue forze e, stranamente, più si allontanava dalla riva e meno acuto si faceva il dolore che lo tormentava. Sembrava che la malattia, la morte e tutto ciò che causa sofferenza appartenessero solo alla terra ferma, mentre tra le onde non ci fosse posto per loro; lì nell’imperscrutabile azzurro, esisteva solo la pace. Aveva superato abbondantemente i bastioni diroccati del vecchio faro quando, lasciati i remi, per riprendersi dalla fatica si era sdraiato nello stretto spazio della barca, con un braccio che penzolava fuori. Ogni tanto un’onda gli lambiva la punta delle dita, ed era come se un gigantesco gatto lo invitasse a giocare. Il delicato tocco dei flutti lo confortava; si sentiva protetto ed amato dal mare con la stessa premurosa attenzione che i suoi genitori gli avevano sempre dimostrato. Persa la cognizione del tempo, era rimasto in quella posizione, galleggiando  nell’oscurità come una lontanissima stella inghiottita dall’infinita profondità dello spazio, finchè non si era fatto buio. Quella piacevole sensazione di imperturbabile quiete era stata tuttavia interrotta da un episodio al quale in seguito, col passare degli anni, Rino avrebbe cercato di non dare troppa importanza, come se non fosse mai accaduto, come se lui lo avesse solo sognato: all’improvviso aveva sentito qualcosa stringergli la mano. La sua prima sensazione era stata di paura, l’unica spiegazione era che, ad afferrarlo, fosse stato un pesce attirato in superficie dai movimenti delle dita, o forse dal luccichio del bracciale. Poi, passati i primi attimi di panico, aveva percepito al tatto che quella era la stretta di una mano. Era rimasto immobile, chiedendosi cosa fare, mentre sentiva delle dita lunghe ed affusolate intrecciarsi alle sue. Con un rapido scatto si era misso in piedi, mentre la barca oscillava pericolosamente, e, alzato il braccio all’altezza del volto, aveva fissato la propria mano con ostilità, come se ad un tratto fosse diventata estranea al resto del corpo: al centro del suo palmo brillava un piccolo corallo verde smeraldo. Non ne aveva mai visti di quel colore e, soprattutto, non immaginava che fossero così luminosi. Lo aveva misso dentro il fazzoletto, che poi aveva legato, con un nodo alla cintura e, ripresi i remi, si era diretto verso la terra. Quel misterioso corallo non poteva che essere un dono del mare, aveva pensato emozionato Rino, e l’idea di poterlo guardare con la dovuta attenzione a casa lo incitava ad aumentare la frequenza del suo vogare. I colpi dei remi suonavano secchi e rapidi nel silenzio notturno, alzando una allegra pioggia di spruzzi che raggiungevano Rino al volto. Appena approdato a riva, stremato dalla fatica, barcollando, aveva raggiunto un lampione. Voleva guardare subito il corallo, ma quando aveva sciolto il nodo, con amara delusione, si era visto costretto a constatare che nel fazzoletto, a parte l’acqua che lo aveva inzuppato, non c’era niente.    

 

 

 

Quel giorno era dedicato ai festeggiamenti per il santo patrono del paese. Nessun pescatore era uscito in mare e l’unica barca che si vedeva galleggiare a largo era quella di Rino. Prima di levare gli ormeggi aveva lasciato la propria rete in bella vista sul piccolo molo, per far capire agli altri che anche lui avrebbe rispettato la sacralità di quel giorno. Rino non pescava più, ormai era vecchio e stanco,  ma l’unica cosa di cui sentiva la necessità era quella di trovarsi da solo in silenzio col suo mare. Quando ritornò al molo e scese dalla barca era notte fonda, i festeggiamenti erano terminati da un pezzo e tutti i suoi paesani stavano dormendo placidamente, stremati dai balli ed  indeboliti dal vino. Non c’era nessuno ad aspettarlo, né tanto meno qualcuno che si fosse preoccupato della sua assenza: Rino era solo come solo pochi possono arrivare ad esserlo. Mentre legava la barca agli ormeggi, annodando meticolosamente la fune intorno al piolo di legno, cercò di allontanare quel pensiero dalla mente, ma più tentava di pensare ad altro, più  quello tornava. Le sue mani sciolsero i nodi appena stretti, offrendo la barca alle onde ed al loro moto, che lentamente la riportò lontano dal molo. Rino si accovacciò fissando il mare, che nel buio si era fuso con il cielo, formando un’enorme manto nero privo di orizzonte. Aspettava, non sapeva cosa o chi, ma era certo che doveva farlo. Ad un certo punto, alle sue spalle, le assi di legno del molo iniziarono a gemere debolmente, come se qualcuno ci avesse camminato sopra con passi lenti e leggeri. Rino si voltò e la vide: una bellissima ragazza bionda. Non indossava nulla, ma non mostrava di provare imbarazzo per la sua nudità mentre si dirigeva sicura verso di lui, con le braccia protese in avanti come una sonnambula. I suoi occhi, azzurri e luminosi, spiccavano nell’oscurità come le lampare durante la pesca notturna. Giunta davanti all’attonito Rino, la ragazza prese dolcemente le mani del vecchio pescatore e disse. << Hai trascorso tutta la vita amando il mare, quindi amandomi. Ora è giunto il momento di  vivere con me.>>. Rino avvertì tutte le sensazioni del corpo progressivamente scemare. Prima smise di sentire i battiti del cuore, poi il respiro e l’ampliarsi della cassa toracica che l’accompagnava, infine la solida consistenza dei muscoli e delle ossa. Non stava morendo, si stava trasformando in altro: diventava acqua, acqua che scivolava dal molo per perdersi nel mare. 

 
 
 

INCURSIONI - opinioni di un lettore accanito

Post n°2 pubblicato il 09 Aprile 2012 da saulferrara
 

 

INCURSIONI

 

 

Opinioni di un lettore accanito

 

 

 

 

 

Al mio amatissimo nipote Francesco, con la speranza di riuscire a trasmettergli la passione per i libri.

 

 

 

 

 

Prefazione

 

 

In questa nostra epoca dove l’immagine priva di contenuto dilaga e chiunque può acquistare al mercatino delle pulci  televisivo il titolo di  “opinionista” o “ tuttologo”, dove cantanti ignoranti vestono i panni del predicatore all’alba di chissà quale apocalisse e l’ultimo idiota protagonista di un reality show riceve una retribuzione che nessun poeta al mondo ha mai immaginato di ricevere, per chi come me, dedica la propria vita alla letteratura, vivere in questa epoca a volte è davvero avvilente. Scrivo da più di quindici anni e se costretto ho sempre usato definirmi un semplice “recensore”, riconoscendo di non meritare altro titolo e lasciando che siano gli altri ad attribuirsi quello altisonante, ed ormai inflazionato, di “critico letterario”. Per questo ho deciso di intitolare questa raccolta di recensioni “Incursioni”, considerandole delle rapide e brevi invasioni di un lettore nel campo della scrittura. La prima volta che ne ho varcato i confini pubblicando un appassionato articolo su Mishima provai una sensazione indescrivibile che ancora oggi, a distanza di molto tempo, continuo a rivivere tutte le volte che pubblicano un mio scritto. Un sentito ringraziamento va a voi che vi accingete a leggere questa rassegna ed a tutti quelli che hanno letto le mie altre produzioni d’inchiostro, perché è merito vostro se io posso “scavalcare” il recinto e per qualche minuto smettere di essere solo un accanito lettore.

 

 

 

 

 

 

 

“La verità della fede e la fede nella verità” (articolo pubblicato sul bimestrale Helios Magazine n° 6/06)

 

Non si sono ancora placate le polemiche scatenata dal romanzo “Il Codice Da Vinci” che la pubblicazione di un altro libro viene a turbare nuovamente l’autorità della Chiesa  e le coscienze dei cattolici. Se con il best seller di Dan Brown era stato sufficiente affermare che si trattava solo di un prodotto di fantasia privo di basi storiche per “bollarlo” come una “trovata pubblicitaria”, con il libro “Inchiesta su Gesù” di Corrado Augias non  può essere ripetuta la stessa “tattica” e  sperare di ottenere  il medesimo risultato. L’impossibilità di una semplicistica e sommaria critica del libro in questione è determinata dal fatto che il giornalista Augias non si limita ad esprimere le proprie opinioni e perplessità sulla figura storica di Gesù, ma  utilizza le stesse come base da cui far partire una serie di domande rivolte ad uno dei massimi conoscitori del cristianesimo, lo storico e biblista Mauro Pesce. Il libro è pertanto  fondamentalmente un esauriente saggio storico, anche se in forma di intervista, sull’uomo chiamato Gesù e come tale va considerato. Teologi e intellettuali di formazione cattolica hanno comunque alzato un coro di proteste perchè secondo loro indagare sulla vita di Gesù, come se fosse un qualsiasi personaggio storico, significa offendere la fede di chi crede nel “figlio di Dio”, dimenticando che generazioni di teologi hanno trovato nell’esistenza storicamente accertata di Gesù un’arma contro gli attacchi di un certo ateismo qualunquista. Dopo venti secoli la Chiesa non vuole cambiare atteggiamento e, sempre più lontana dalle masse di credenti e non credenti, cerca di imporre la sua visione di una “Verità” unica e incontestabile, la verità della fede. Verità che paradossalmente non può essere né provata né negata in quanto “intima certezza”, ma  proprio in  nome di questa “Verità”, secondo la Chiesa, si dovrebbe fermare la ricerca della verità storica. Lo scontro è tra i più antichi: credere senza conoscere (la verità della fede) o conoscere per credere (la fede nella verità). Scontro che nasce per un principio errato: l’unicità della verità. Quando Pilato chiese a Gesù “Cos’è la verità?”, come risposta ottenne un lungo silenzio, silenzio che io non interpreto come l’impossibilità di comunicare cosa sia la verità  ma come l’affermazione che è il silenzio stesso la risposta, perché in quella pausa convivevano tutte le più diverse e possibili risposte. Per sintetizzare al massimo l’analisi sviluppata nel libro “Inchiesta su Gesù”, riporto una piccolissima ma significativa parte della postfazione di  Mauro Pesce: “Gesù era un ebreo che non voleva fondare una nuova religione. Non era un cristiano.”  Il Gesù storico che ci viene presentato da Mauro Pesce è molto distante dal Gesù della fede o per meglio dire da quello riconosciuto dalle chiese cristiane, ma dalla sua analisi ad essere messa in discussione è la “fede” o l’origine storica del cristianesimo? Sono molte le riflessioni che nascono dalla lettura di questo libro: nella nostra società , ad esempio, ormai  divenuta multietnica, quanti tra quelli che si definiscono cristiani conoscono il vero significato delle festività religiose che con tanto ardore sono disposti a difendere dall’ipotetica “invasione culturale” islamica? Forse tra la verità della fede e quella della conoscenza c’è un’altra verità, quella dell’intuizione. Un poeta “pensante” scrisse “quando gli dei erano più umani gli uomini erano più divini” : pertanto nel ricercare i lati umani di Gesù non si commette nulla di offensivo nei confronti della fede, anzi è proprio riconoscendo a Gesù delle debolezze umane che si può attribuire al suo sacrificio un valore eccezionale. Personalmente al Gesù figlio di Dio ho sempre preferito il Gesù figlio dell’Uomo e se il compito della religione è quello di mettere in “relazione” gli uomini con Dio, essa non può ignorare che nell’animo umano abitano sia l’esigenza di credere che l’ansia di conoscere.

 

 

 “Il caso Welby: quando vivere diventa una violenza” (pubblicato sul bimestrale Helios Magazine n° 1/07)

 

 

Il venti dicembre scorso, alle 23 e 40 è morto Piergiorgio Welby, dopo che un anestesista, accogliendo la sua richiesta di “morte opportuna” gli ha somministrato un sedativo e ha staccato la spina del respiratore polmonare che da dieci anni gli permetteva di respirare. La notizia della sua morte, nonostante fosse da tempo una morte annunciata, ha avuto un forte impatto empatico, suscitando reazioni contrastanti. Welby, incapace perfino di compiere da solo la cosa più banale come respirare, con  lucida determinazione ha deciso di lasciarsi morire, scavalcando così le leggi dell’uomo e di Dio. Per molti è uno scandalo,  come se un uomo per la seconda volta nella storia avesse contravvenuto ad un divieto divino cogliendo il frutto proibito: quello del bene (la vita) e del male (la morte). La vita è un valore che si deve difendere a tutti costi e su questo siamo tutti d’accordo, ma qual’è il confine che separa il miracolo della vita dalla dannazione di viverla? Papa Ratzinger ha condannato la scelta di Welby in nome del sacro valore della vita che va rispettato fino al suo “tramonto naturale”, giustificando così la vergognosa decisione vaticana di non concedergli i funerali religiosi. Ma a questo punto c’è da chiedersi se il vivere alimentati artificialmente, perennemente attaccati ad un respiratore, rappresenti la “normale” prosecuzione della vita. Se fossimo degli antichi orientali la parola morte non ci farebbe tanto orrore, perché per loro questo termine non rappresentava l’opposto di vita ma bensì di nascita, ma in quanto occidentali siamo condizionati da quel masochistico culto del dolore che pone come “male sommo” la morte, riconoscendo ad ogni altra forma di sofferenza un alto valore morale. Piergiorgio Welby pochi mesi prima del decesso ha dato alla stampa “Lasciatemi Morire” (Ed. Rizzoli), un piccolo libro, conta poco più che un centinaio di pagine, dove la poesia e l’ironia si fondono con la profonda amarezza che si prova nel non essere ascoltati. Il libro si apre con la lettera che Welby ha inviato al presidente della Repubblica, seguita da alcuni articoli di Calibano, pseudonimo col quale firmava i suoi editoriali, alternati da liriche toccanti e geniali, chiudendosi poi, con l’appendice, che riporta i programmi di quelle che sono state le sue battaglie: un progetto di legge che riconosca il diritto all’eutanasia e l’approvazione del testamento biologico. Negli scritti di Welby non troviamo un nichilistico rifiuto della vita né tanto meno l’esaltazione di una cultura della morte, ma la disincantata descrizione della differenza che corre tra il vivere e il non-vivere. Chi sostiene “passivamente”  la “cultura” della sacralità della vita  non può accettare che si parli di eutanasia, discussione facile da evitare quando si è soltanto dei fortunati “spettatori” del dolore. Per loro qualunque condizione di vita e da preferirsi al morire, e per tanto l’eutanasia è il “male” da sconfiggere, e per contrastarlo impediscono che se ne discuta seriamente nelle sedi opportune. Ma se l’eutanasia non è la soluzione alla malattia l’accanimento terapeutico non è altro che “volontà d’impotenza”, perché dinanzi all’impossibilità di guarire un paziente, piuttosto che ridurgli la sofferenza, si preferisce ritardarne la morte a tutti costi, spingendosi oltre il rispetto della dignità umana e trasformando la “cura” in “violenza”, riducendo cosi la vita ad un essere costretti a vivere. Se il secco e indiscutibile no all’eutanasia pronunciato dai  “cattolici” non sorprende, a destare sospetto e delusione è invece il silenzio di quei politici che in campagna elettorale si sono presentati come sostenitori del pensiero laico. Welby con acuta ironia ha criticato l’assenza nel nostro paese di una libera dialettica su temi come l’eutanasia scrivendo: “Com’è difficile vivere e morire in un Paese dove il Governo fa i miracoli e la Conferenza episcopale “fa” le leggi.”  ( da Lasciatemi Morire pag. 97).  L’eutanasia è sicuramente un argomento complesso che va affrontato con molta attenzione ma proprio per questo, anche alla luce dei numerosi casi di “dolce morte” clandestini, una discussione che abbia come finalità la promulgazione di una legge che la regolamenti non può essere più rimandata. Dinanzi alla sofferenza inutile le risposte non possono essere solo la santificazione del dolore o l’eroica rassegnazione, all’uomo va concessa anche la possibilità di morire cosi come ha vissuto: da uomo.

 

 

“Gandhi la forza, le idee e la forza delle idee” (Articolo pubblicato sul bimestrale Helios Magazine 1/08)

 

 

 

Mi sembra di vederlo, in quel funesto 30 gennaio del 1948, quando affrontava il suo peggior nemico per l’ultima volta,  con la stessa serenità che lo aveva reso celebre nel mondo, rarissimo esempio di tolleranza in quell’oscuro scorcio di  secolo nel quale venivano perpetrate le più atroci crudeltà nel nome della razza . Gandhi era minuto e fragile all’apparenza ma dal suo aspetto di debole “vecchietto” si irradiava una forza straordinaria, la forza che possiede soltanto chi ha la consapevolezza di avere una missione da compiere nella vita. Naturalmente non trovo alcuna difficoltà ad immaginare il suo abbigliamento, il solito, reso celebre dalle tante foto che lo ritraggono assieme ai grandi della storia : miseri sandali di legno ai piedi ed una sorta di tunica bianca che, aperta sul petto, lascia vedere le ossa di un corpo provato dai molti digiuni. E sicuramente non è scomparsa la gentilezza dai suoi occhi vivaci quando questi hanno incontrato quelli del suo assassino. Gandhi rimarrà, tra tutte le figure storiche contemporanee, quella dotata di maggiore carisma, un’icona del misticismo attivo, un guerriero della non violenza che ha combattuto per le sue idee, armandosi soltanto di esse. Quando i leaders delle potenti nazioni industrializzate davano prova di forza con i propri arsenali militari, Gandhi, seduto a terra con le gambe incrociate nel suo umile ashram, elaborava quelle strategie politiche che avrebbero portato, dopo tre secoli di tirannia inglese, all’indipendenza dell’India. Ideatore della disubbidienza civile, aveva insegnato ai suoi numerosissimi seguaci a non reagire alle aggressioni che subivano durante le dimostrazioni, e loro,  come unico gesto di difesa, a volte si limitavano a coprirsi con le braccia la testa ed il volto,per difendersi dalle manganellate. Oggi purtroppo i moderni disubbidienti danno spettacoli tutt’altro che pacifici e civili, brandendo spranghe e lanciando estintori, a dimostrazione che la violenza, sterile manifestazione di forza, rimane il linguaggio dominante in un’epoca  popolata da movimenti animati solo da anti-idee. Un episodio particolarmente significativo nella sua vita e che ci ha riguardato più da vicino è stata la  visita  che egli effettuò in Italia nel 1931. Gandhi, che predicava la povertà, praticandola severamente come un moderno San Francesco e naturalmente  distante anni luce dal culto superomistico della forza, fu ricevuto dal Duce, mentre papa Pio XI, rappresentante spirituale, rifiutò d’incontrarlo: la  storia, si sa bene, non è povera di questi curiosi paradossi, ma stranamente quella della Chiesa ne è sorprendentemente ricca. Il 15 agosto del 1947, il giorno dell’indipendenza dell’India, il giorno per il quale Gandhi aveva tanto lottato e sperato, sarà forse il peggiore della sua vita; infatti, deluso, non partecipò ai festeggiamenti, nonostante che da tutti venisse acclamato come Bapu (padre) della patria. Sembra che il mondo neghi ai suoi migliori “figli” la soddisfazione della vittoria, come se questi, più degli altri, debbano alla fine venire schiacciati dal giogo del destino. L’Inghilterra, distrutta dalla seconda guerra mondiale, non ha più né la forza né l’interesse per mantenere il proprio dominio in India e quindi dà corso alle trattative per l’indipendenza, trattative che si concluderanno con la divisione dell’India e con i conseguenti esodi e deportazioni di massa. Il suo sogno di un’ India libera si trasformerà in un incubo: Gandhi, che per tanti anni aveva combattuto per la libertà contro il nemico inglese con la non-violenza, deve assistere ora ai sanguinosi scontri fratricidi tra musulmani e induisti.  Egli in tutta la sua esistenza non separerà mai il suo essere uomo religioso dall’impegno politico, fondendo questi due aspetti della sua grande personalità nella satyagraha (forza dello spirito),  che rappresenterà  sia il suo stile di vita che il metodo politico  per giungere allo swaraj (completa indipendenza). Con  il satyagraha, Gandhi ha piegato più volte alla sua volontà il potente impero inglese. Sono celebri i suoi digiuni e le sue azioni astute e coraggiose, come la “ marcia del sale”, nella quale percorse a piedi duecento miglia per estrarlo abusivamente dal mare, per protesta  contro il monopolio che gli inglesi ne esercitavano sulla produzione . O i vari boicottaggi di prodotti inglesi, come ad esempio le stoffe, messo in pratica incoraggiando i suoi seguaci a prodursi da soli i propri abiti: lo stesso Gandhi si imponeva di filare duecento iarde di cotone al giorno utilizzando un antiquato arcolaio a mano. Il 30 gennaio del 1948, mentre si  recava ad un incontro di preghiera, un fanatico bramino, quindi anche egli un indiano induista, gli sparava uccidendolo. Cosi moriva il “santo” della non violenza, a triste dimostrazione che l’impero dell’odio resta un nemico impossibile da sconfiggere.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
 
 

Karezze

Post n°1 pubblicato il 08 Aprile 2012 da saulferrara
 
Tag: Karezze

 

KAREZZE – Haiku e tanka di Saul Ferrara (Edizioni Progetto Cultura, pagg. 32, euro 5,00 )

 

(di Loredana Capellazzo)


Saul Ferrara è autore non nuovo a cimentarsi negli haiku e il fatto di occuparsi di filosofia orientale non è certamente estraneo a questa sua scelta. Haiku è un tipo di poesia giapponese dalla caratteristica struttura di tre versi in 17 sillabe (5-7-5); un piccolo gioiello che racchiude in poche sillabe un'impressione, un pensiero, un sospiro dell'anima. Semplice raffinatezza e brevità che hanno fatto dire a Sei Shonagon, scrittrice giapponese del X sec.: "In verità, tutte le cose piccole sono belle." L'haiku è senza dubbio influenzato dal pensiero buddista ed esprime una visione della natura di solito serena e vicina alla spiritualità, capace di risuonare in armonia con le emo­zioni e i sentimenti del poeta che la contempla. L'haiku ha molti estimatori tra i grandi poeti contempora­nei, da Kerouac a Eluard, da Borges a Pessoa a Ezra Pound, che vi hanno introdotto piccole variazioni come la perdita del "kigo", riferimento a una stagione, e quindi una forma espres­siva più libera. Alla schiera di questi appassionati appartiene Saul Ferrara, che nel suo minimalismo ricco di illuminazioni istantanee e riflessioni a volte amare sa guidarci attraverso la sua visione della vita fatta di caducità e mutevolezza. A cominciare dal titolo, dove è usata la K non con la du­rezza che intendiamo noi occidentali, ma la "k" di haiku e tanka, lieve, leggera e schioccante, che rimanda alla defini­zione: "Haiku è un componimento dell'anima, dove tante pa­role non servono, agisce la delicata e quasi insostenibile leggerezza di una carezza."

E quelle di Saul Ferrara sono "karezze" che di volta in volta aprono un sorriso, consolano la malinconia di un ricordo, fanno volare il pensiero. Troviamo in questa silloge alcuni versi di ispirazione più classica, dove il profondo amore e rispetto per la natura gli fanno compiere "cauti passi" perché "il fogliame nasconde / gusci di vita"; dove "una rondine scala/ l'arcobaleno"; ma anche qui il canto del grillo è "amaro". Alternati a questo genere di haiku ci sono quelli che por­tano riferimenti personali, riflessioni sul tempo e sulla vita, che esplorano l'anima e le sensazioni del corpo, facendo emergere spesso tristezza e nostalgia, che gli elementi della natura rispecchiano: "Luce lunare,/ muta sorella nella / soli­tudine". Nella seconda parte del volume abbiamo una breve rac­colta di tanka, la forma più antica della poesia giapponese, da cui l'haiku deriva, composti da 5 versi di 5-7-5-7-7 sillabe. Anche qui, immagini lievi di gioia si mescolano alla tristezza che fa dire al poeta "per riscaldarmi/ brucerò ricordi e / no­stalgici sospiri". Una sottile malinconia e il sempre presente sentimento del tempo che scorre e porta via i sogni ("ed ogni sogno/ diventa scuro come/ fumo di braci spente") sono la cifra della rac­colta, in cui brevi sprazzi di luce lasciano respirare la natura in tutte le sue declinazioni (stagioni, elementi naturali, ani­mali, piante) e accompagnano il mondo interiore del poeta, i momenti più introspettivi che definiscono il suo percorso spi­rituale e sua la ricerca verso la comprensione dell'uomo e della natura.

 

  

 Haiku

 

3

Fine d’estate,

nel cielo si alzano

croci piumate 

 

8

Aghi di pino

cadono, del bosco è

l’intimo pianto

 

10

Vago nel vasto

mare, la tua mano

la mia vela

 

Tanka

 

1

 

L’età felice

è terminata. Come

stelle in lutto

sul muro impronte di

piccole mani sporche.

 

 

 
 
 
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